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I bastioni impedivano le scorrerie dei corsari

sabato 4 agosto 2007

Le poche torri costiere di avvistamento nel territorio comunale di Messina rimaste costituiscono ormai una rara e preziosa testimonianza d’inestimabile valore storico-architettonico, collegata al grandioso progetto di fortificazione della costa siciliana per la difesa delle attività produttive e commerciali dalle scorrerie dei corsari, mediante un complesso sistema di torri delle città costiere, redatto dall’architetto senese Tiburzio Spannocchi per incarico dei Viceré di Sicilia, Marcantonio Colonna, dal 1577 al 1579. Il progetto dello Spannocchi fu poi oggetto di verifica e realizzazione da parte di Giovan Battista Fresco e dell’architetto fiorentino Camillo Camiliani, nel 1583-84.

Quest’ultimo venne inviato in Sicilia con la carica di «sovrintendente» alle fortificazioni del Regno, per «riconoscere la circonferenza dell’isola, e descriverla in carta, specificando i porti e i luoghi, dove eran le torri, e quelli in cui doveansi fabbricare le nuove». Lo Spannocchi, invece, «cavallero del Abito di San Juan con titulo y autoridad de capitan de armas», aveva compiuto una visita delle marine siciliane partendo da Messina, registrando nella zona la presenza della Torre Faro, di origine romana, di quelle denominate «Rasocolmo», «Mezzana», e «Mazzone». In effetti, Bizantini, Arabi, Normanni, Angioini, Svevi ed Aragonesi avevano fatto ricorso a queste costruzioni di controllo e segnalazione e, a tale scopo, alla fine del ’500 ogni torre veniva dotata dell’occorrente per le segnalazioni: «Carbone a ragione di tomina dieci al mese ed anco capi di libano impeciati per fare i segni di fuoco acceso» e «capi di gomene vecchie per fare i segnali di fumo». Sul finire del secolo XVI, però, il terrore per i saccheggi, le depredazioni, le atrocità commesse da pirati e corsari, turchi e saraceni che sbarcavano sulle coste siciliane, era così grande da indurre, appunto la deputazione del regno di Sicilia a restaurare le antiche torri in rovina, e, soprattutto, a costruirne di nuove in un fittissimo sistema che circuiva l’intero contorno dell’isola.

Preoccupazione, questa, che Camiliani palesa costantemente nei suoi appunti di viaggio, quando, una volta, annota che in un punto la costa fa «un poco di curvo, talché alcuna volta si son assicurati i corsali a dar in terra e fare alcune prede»; un’altra volta osserva che quella marina «per li ridossi, che dalla parte di levante si trovano, si rende molto pericolosa, perchè i corsali, tanto per la comodità dell’acqua, come delli depredamenti, che possono ed hanno soluto fare a quei contorni, sempre s’hanno occultato nella detta cala»; oppure scopre «due grandissime grotte, là dove i corsali sono stati soliti spesso farci imboscate».

Scrivono, in proposito. Salvatore Mazzarella e Renato Zanca: «Camiliani, in altre parole, in questo viaggio prendeva viva e personale conoscenza della frequentazione che delle coste siciliane turchi e corsari facevano, insidiando la sicurezza delle persone e dei beni che vi stavano... Infatti da tempo, e comunque per quello del secolo XVI ormai volto, sul Mediterraneo si esercitava la politica aggressiva dei turchi a danno delle potenze europee... A cagione dei turchi, pertanto, il "Mare Nostrum", al largo e lungo le coste, era ovunque luogo di battaglia, nel quale nessuna vita, nessuna condizione di libertà, nessuna circolazione di beni, potevano veramente dirsi sicure, per una fatale radicalizzazione del conflitto che non si distingueva, per rispettarli, il cittadino civile dal soldato, il vascello mercantile da quello militare, il minuscolo e pacifico centro costiero dalla fortezza». E a Messina, questa piaga a lungo sopportata, fu così radicata nell’anima dei cittadini da essere ricordata perfino nei toponimi del villaggio «Acqualadroni» e del torrente «dei Corsari».

Era indispensabile, dunque, la sorveglianza costante del mare, soprattutto in periodo di «sospetto» (come si diceva) da aprile ad ottobre, quando il mare era generalmente calmo, ferveva la raccolta dei prodotti ed intensi erano i traffici commerciali: il «tempo di corsali», insomma come veniva appunto definito. Il sistema di avvistamento per mezzo delle torri offriva queste garanzie di una sia pur sommaria prima difesa, ma, soprattutto, consentiva in un tempo che oggi definiremmo reale, di dare la notizia dell’avvicinarsi d’imbarcazioni nemiche, mediante segnalazioni di fumo, di.fuoco («fani») o sonore con campanelle e «brogne» (conchiglie), ai castelli ed alle strutture fortificate dell’entroterra in maniera da consentire l’approntamento di tutti i sistemi difensivi, prima dello sbarco degli invasori.

Alla fine del Cinquecento, quindi, la deputazione del Regno di Sicilia poteva contare su un formidabile apparato di 197 torri (44 della deputazione e 153 a carico di «Sua Maestà», del Senato di Palermo e di altre «Università»). Nel territorio messinese, oggi ne sono rimaste ancora in piedi cinque: «Cariddi», «Faro», «Mazzone», «Muzza», e «Rasocolmo».

di Antonino Principato


Vedi on line : Fonte: La Sicilia 25-10-1998

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